CALIFORNIE

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Jamila, una ragazza di origine marocchina, vive con la sua famiglia a Torre Annunziata, in provincia di Napoli. A 9 anni ha grandi ambiziosi ma poi si isola sempre più in sé stessa, non frequenta i coetanei ed evita di andare in classe. A 12 anni, mette i soldi da parte perché vuole tornare in Marocco, anche da sola. A 13 lavora a tempo pieno come parrucchiera presso il salone Californie. Riesce a comprarsi tutto quello di cui ha bisogno, vestiti e telefono compresi. Ma soprattutto è soddisfatta perché la sua principale le affida delle responsabilità e solo più tardi si rende conto di essere sfruttata. Poi una mattina, sul posto di lavoro, arriva un assistente sociale e le chiede come mai non va a scuola.
C’è un legame diretto tra Butterfly, il film precedente diretto da Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman e Californie. Avviene proprio all’inizio.
Jamila si trova nella palestra Vesuviana Boxing e guarda Irma Testa, la prima pugile italiana a qualificarsi per le Olimpiadi di Rio che nel 2019 è diventata campionessa europea dei pesi piuma che è proprio al centro di Butterfly. Un collegamento istantaneo, da un volto a un altro. Ancora una storia di vita a Torre Annunziata. Nel fango della periferia, un’altra storia di speranze, di fatica, di rabbia, di lotta contro gli altri e sé stessi.
Se in Butterfly era fondamentale la presenza di Lucio Zurlo, che ha cresciuto generazioni di pugili e aspiranti boxeur, in Californie è più nascosta ma si mantiene ancora come una guida, anche se discreta. Poi, tra il secondo e il terzo film della coppia Cassigoli-Kauffman, c’è il passaggio dal documentario al cinema di finzione. Il cambio di genere non è però così netto, anzi il metodo è simile.
Se in Butterfly la storia di Irma Testa dava l’impressione di essere ricostruita e inquadrava il suo volto e il suo corpo come quello di un’attrice, in Californie ci sono squarci di vita catturati, dove non sembra esserci distanza tra ciò che è reale e ciò che è ricostruito. Jamila viene seguita dai 9 ai 14 anni, in un percorso di crescita e di messa a fuoco della sua identità che richiama istintivamente il lavoro fatto da Richard Linklater con Boyhood. Ma soprattutto c’è il volto di Khadija Jaafari che cambia nel corso degli anni, che mantiene negli occhi la sua irrequietezza, che prevale all’interno dell’inquadratura tanto è vero che Cassigoli e Kauffman hanno scelto di utilizzare il formato 4:3 per sottolineare la centralità della protagonista.
Californie, il cui titolo arriva dall’insegna sbagliata del salone per parrucchiera, è uno spaccato potente che entra nel mondo e nella testa di Jamila. Non guarda in faccia a nessuno quando vuole raggiungere un obiettivo come nella scena in cui si presenta da una cliente per farle i capelli. Non si vuole neanche far mettere i piedi in testa da nessuno e risponde a tono alla sua insegnante quando non le vuole spiegare quello che ha letto. Ma soprattutto lascia emergere i suoi sensi di colpa in uno dei momenti più intensi del film nel momento in cui piange guarda la madre dalla finestra. L’identità tra Italia e Marocco segue i naturali passaggi soggettivi, dal desiderio del ritorno a casa al suo rifiuto, con la figura del padre vista come marginale, se non assente. Un film che colpisce dritto, che ha l’impeto e la poesia del cinema di Antonio Capuano combinate con la vitalità e la grazia di quello di Sébastien Lifshitz