IL GRANDE CARRO
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Una compagnia di marionettisti formata da nonna, padre e fratelli e sorelle continua a tenere spettacoli per il divertimento dei più piccoli. Fino a quando un giorno il padre si sente male durante uno spettacolo. Da quel momento tutto cambia.
Philippe Garrel realizza un film in famiglia con tanta nostalgia per una forma di intrattenimento che sembra destinata a scomparire.
Come accade a molto cinema francese questo è un film che non andrebbe doppiato ma proposto con i sottotitoli. Perché l’esile trama si sostiene grazie ad una lingua e a dei toni che suonano morbidi e soffusi anche nei momenti più problematici e tragici.
Philippe Garrell cercava l’occasione per poter riunire i suoi tre figli (all’epoca delle riprese di 38, 30 e 22 anni) e l’ha trovata grazie a una sceneggiatura scritta con Jean-Claude Carrière, Arlette Langmann e Caroline Deruas Peano. Ma anche grazie a una storia personale che lo vede figlio e nipote di due artisti che, per un periodo della loro vita, sono stati marionettisti. Ne nasce un film che nella prima parte ci racconta un mondo che sembra andare contro corrente in quest’era digitale.
Seguiamo gli artisti dietro il palco oltre che nel quotidiano, vediamo come interagiscono ma, soprattutto, sentiamo il divertimento degli spettatori bambini a riprova che, nonostante tutto, la loro fantasia non si è ancora appiattita e sanno reagire positivamente ai meccanismi di base della comicità. Da quando però il collante del gruppo viene a mancare è come se quelle mani, abili nel far vivere delle marionette estratte da un baule in cui giacevano inanimate, non siano più in grado non solo di trovare la giusta ispirazione per gli spettacoli ma anche di toccare e farsi toccare nel modo giusto.
Tra una coppia che si sfalda dopo la nascita di un bambino e un attore che cerca la propria strada su un palcoscenico in cui non debba più nascondersi agli occhi del pubblico si viene a creare un mondo nuovo nel quale chi è meno attrezzato finisce con il perdersi. È come se Garrel padre volesse comunicarci che l’arte può salvarci dal vivere la vita preservandoci dal doverne affrontare le aporie che inevitabilmente finiscono per crearsi. Lo fa con i toni intimistici che gli sono propri e con una grande attenzione per quegli impercettibili slittamenti del cuore che possono essere intuibili solo grazie un primissimo piano che coglie un sorriso d’imbarazzo appena accennato.