IL VENERABILE W.
TRAILER
Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Motivazione:
Con uno sguardo che si tiene laterale per mettere ancora più in mostra la stortura del pensiero del suo protagonista, il monaco birmano islamofobico Ashin Wirathu, Barbet Schroeder firma una regia attonita eppur rigorosa, in un’opera che ragiona sulla politica religiosa, sul pensiero che si autodefinisce “superiore” e sul primato della materia belluina rispetto all’evaporazione della “fede”.
Il “Venerabile Wirathu” è un influente monaco buddista che, attraverso la pubblicazione dei suoi scritti e la diffusione dei suoi discorsi, per quanto “sacro” rappresentante della più pacifica delle fedi, ha fomentato l’odio dei suoi seguaci nei confronti dei musulmani, spingendoli alla lotta armata e convincendoli che la loro religione fosse minacciata di estinzione. Tutto questo in una paese, la Birmania, nel quale il 90% della popolazione è buddista e professa la necessità di amare tutti gli esseri e la certezza che dalla violenza non possa nascere che altra violenza.
Tutti gli esseri, specifica Wirathu, tranne i musulmani, che egli paragona ai pescigatti: creature che si riproducono rapidissimamente, possiedono una natura aggressiva e distruggono senza eccezione alcuna l’ecosistema in cui si trovano.
Non si tratta di un facile paragone: nella predicazione di Wirathu si contano, come in una lista nera, i punti che non possono mancare nel manuale del perfetto razzista. Innanzitutto, la questione stessa della razza: restringendo a proprio uso e consumo l’interpretazione di quella che il Buddha chiama “razza umana” alla sola “razza buddista birmana”, il folle monaco ha creato e gonfiato a dismisura la percezione del pericolo che graverebbe su di essa, identificandolo nel vicino di casa: il bengalese di religione islamica. Quindi ha allargato a dismisura il suo consenso, propagandando filmati di sua produzione (in migliai di dvd gratuiti), colossali bugie, e arrivando ad incidere niente meno che sulla legislazione del Paese, per imporre, per esempio, il controllo delle nascite ai musulmani.
Mettendo insieme il materiale filmato di propria mano con l’archivio sterminato di immagini oggi a disposizione (i video realizzati con l’iPhone dai protagonisti degli eventi, nel 2012), Barbet Schroeder (di)mostra quanto pronta e repentina possa scattare la scintilla dell’odio, su un terreno coltivato a dovere, anche se questo terreno si trova nella terra della pace e della preghiera per antonomasia. Il suo affresco non è completo, il ruolo dei militari e quello di Aung San Suu Kyi solo accennato, e la voce degli stessi Rohingyas, i musulmani trasformati in nemici e costretti ad abbandonare le loro case e le loro città, è tenuta in minima considerazione, ma il film ha la lucidità di far capire che Wirathu non è la causa ma il mezzo di amplificazione di un odio presente e sotterraneo, le cui ragioni superano di gran lunga la retorica religiosa.
Le immagini amatoriali delle brutalità scatenatesi sono spesso insostenibili, ma a provocare lo sconcerto e la riflessione sono anche i momenti in cui Schroeder sposta la camera dall’Asia all’Europa rilevando pericolose corrispondenze.