SAINT OMER
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Rama insegna letteratura francese all’università e scrive il suo prossimo libro sul mito antico di Medea. A ispirare le sue pagine è Laurence Coly, madre infanticida che ha ‘affidato’ la sua bambina al mare. Processata per il suo crimine, Laurence si rivela impenetrabile e contraddittoria. Immigrata senegalese, educata dai genitori a essere sempre garbata e composta, la sua deposizione è esemplare fino alla mostruosità. E in lei accusa e testimoni vedono soltanto un mostro da rinchiudere per sempre. Non la pensa evidentemente così la difesa, che pronuncia la sua arringa defensionale dotta, non la pensa così Rama, che assiste a un processo in risonanza costante con la sua vita e la sua gravidanza.
Dai suoi incontri con mondi che ignoriamo, Alice Diop deriva i suoi documentari, le sue immagini, i suoi protagonisti. Uomini e donne che rifiutano come lei di essere ridotti all’ambiente in cui sono nati e con cui non sembrano mai finire.
Con Saint Omer, il suo cinema persevera nell’esplorazione di un’assegnazione sociale per meglio fuggirla. Il film si apre allora su una donna nera in cattedra, un’intellettuale solenne come una regina, che non è dove ce l’aspettiamo ma è esattamente dove siamo. È forse per questo che i suoi film ispirano sempre una forza pacifica, una tensione nel montaggio che non dà niente per scontato e scommette sulla ricchezza dei segni che emanano dai volti, dai corpi, dalle situazioni o dai paesaggi. È così che ci fa intendere l’ingiustizia, così che ci allerta sull’esperienza della violenza razzista, sul vissuto dei neri e delle minoranze in seno alla Francia.