E’ solo la fine del mondo

PROGRAMMAZIONE
TERMINATA
E’ solo la fine del mondo
Uno scrittore scopre di essere un malato terminale e decide di tornare a casa per comunicare la notizia alla famiglia.
E’ solo la fine del mondo
(Juste la fin du monde)
Regia: Xavier Dolan
Cast: Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Léa Seydoux, Vincent Cassel, Marion Cotillard
Genere: Drammatico
Durata: 95 min. - colore
Produzione: Francia (2016)
Distribuzione: Lucky Red
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Da dodici anni Louis, drammaturgo affermato, è lontano da casa. Si è chiuso la porta alle spalle e non è si più voltato indietro. Ma adesso Louis sta morendo e a casa ci vuole tornare. Imbarcato sul primo aereo, rientra in seno alla famiglia che lo attende tra premurosità e isteria. Sulla soglia lo accoglie l’abbraccio di Suzanne, la sorella minore che non ha mai visto crescere, Antoine, il fratello maggiore che si sente minacciato dal ritorno del fratello che aveva monopolizzato l’attenzione dei genitori durante tutta la sua infanzia, Catherine, la cognata insicura e mai conosciuta che esprime le sue verità balbettando, la madre, affatto preparata al ritorno di un figlio mai compreso. Adesso che Louis è tornato lei vorrebbe tanto che le cose funzionassero, che i suoi figli trovassero le parole per dirsi ma nessuno dice e tutti sentenziano. Nessuno sa più niente dell’altro, la morte si appressa e la voce per annunciarla si spegne su un indice che chiede il silenzio.
C’è qualcosa di dissonante nel sesto film di Xavier Dolan, qualcosa che si avverte subito perché è la traccia sonora più riconoscibile del suo cinema. Abitato da attori tutti francesi, È solo la fine del mondo perde l’accento quebecchese e parla letteralmente un’altra lingua, una lingua differente. Bloccato come il suo protagonista nello scarto temporale tra l’intenzione di rivelare una (brutta) notizia e l’impossibilità di farlo, È solo la fine del mondoconferma l’equilibrio (sbilanciato) del cinema di Dolan tra intensità e irrisione, esuberanza e disperazione ma ripensa la sua ‘musica’, ‘suonando’ evidentemente la fine di una stagione artistica.
Da J’ai tué ma mère a Mommy è l’emozione complessa della vergogna, la vergogna di sé a separare da sempre i membri delle famiglia di Dolan che navigano a vista in querelle infinite. Con È solo la fine del mondo quella separazione è consumata senza appello in un’emorragia di parole quasi postume. Cerimonia degli addii in cui la ferocia s’impone sull’umorismo e la forza drammaturgica affonda nella pièce di Jean-Luc Lagarce, il film mette in scena un’impossibile riconciliazione familiare e chiude i conti col soggetto, convocandolo un’ultima volta in un interno e dentro il caos più assoluto in cui nevrosi, gelosie, frustrazione, rancori ma anche amore e ammirazione si mescolano.
Atto unico, baleno di disagio assoluto, arco di isteria incontenibile, È solo la fine del mondo annuncia la fine del mondo, la fine del sé-mondo, quello del protagonista e quello dell’autore che si fanno silenti. Perché gli altri non vogliono sentire, perché gli altri non possono sentire. Perché esiste un profondo sfasamento nel dramma, un’intimidazione reciproca tra chi ritorna e chi accoglie. L’uno è trattenuto, gli altri smodati nella perplessità che nutrono verso chi anni prima li ha ‘ripudiati’. Louis è già morto, un morto che torna tra i vivi tra cui non smette di sentirsi estraneo. Ma il film autorizza a pensare anche il contrario, che Louis, nonostante il male che lo consuma, è il solo a essere vivo in faccia a un’assemblea di spettri familiari, governati dalla madre di Nathalie Baye con le labbra rosse d’amore e le palpebre blu come il mare che la separa dal figlio.
Impianto teatrale che respira soltanto nella corsa in macchina dei due fratelli, È solo la fine del mondo si consuma intorno al tavolo e dentro le stanze. Sui volti, sugli sguardi e sui loro scambi scivola invece il dolore e il risentimento per il vuoto lasciato da quel figlio-fratello che un giorno è stato uno di loro. Nei primi piani, nei campi e nei controcampi, saturi di una necessità cinematografica, Dolan incrocia i pensieri ed emerge quello che i personaggi non riescono a dire nemmeno a se stessi. Le immagini sposano il ritmo delle frasi, delle intonazioni, dei colori, dei respiri, della luce che qualche volta si fa abbagliante, liberando torrenti di nostalgia e lasciando spazio alle tempeste della giovinezza, dell’amore, del sesso esploso nei flashback pop.
Addosso ai suoi incrollabili attori, su tutti Vincent Cassel, fratello maggiore collerico e frustrato che recita sulla brutalità di una sola nota, Dolan produce una drammaturgia di ritorno, fondata sulla retrospezione, che resta sterile sul piano dell’azione e lavora sulla semplice giustapposizione delle parti. Impossibile per Gaspard Ulliel, davanti alla famiglia, coro e tribunale insieme che attende la promessa di un domani condiviso, trovare la forza o anche solo il momento per prendere la parola.
Come nel primo Dolan, nessuno ascolta nessuno e tutti si parlano sopra sbraitando. Film greve a tutto volume, È solo la fine del mondo conserva qualche affettazione, l’uccello a cucù incarnato e stramazzato al suolo, ma testimonia soprattutto la maturità di un autore che riduce l’eccesso per afferrare l’anima nascosta di personaggi che abitano la dimensione irreparabile del già troppo tardi. Superato il confine il silenzio è l’unica soluzione. L’unica via d’uscita per Louis, figliol prodigo, e Xavier, enfant prodige, testimoni e narratori delle rispettive epopee intime di figli. Epopee nevrotiche che convertono l’ordinarietà della vita familiare in mito contemporaneo.